Il successo di quest’opera è esclusivamente attribuibile alla bravura e al talento di Mel Gibson. Rischiando in prima persona, visto l’altissimo budget produttivo (circa 60 milioni di dollari), l’attore, neo regista newyorkese d’origine australiana, riesce a far resuscitare un genere, oggi completamente fuori moda, mediante un film che alla base è sorretto da un’intelaiatura di sapore epico analoga in tutti i parametri ai kolossal hollywoodiani degli anni cinquanta.
Accostato troppo frettolosamente a lavori simili pressoché contemporanei (Robin Hood di Kevin Reynolds 1991, Il primo cavaliere di Jerry Zucker 1995 e in parte a Reeds di Warren Betty 1981), il film, nel suo tessuto narrativo e attraverso una visione imperiosa degli avvenimenti, ricalca, per fatti e situazioni, Spartacus di Stanley Kubrick 1960 ed El Cid di Anthony Mann 1961; sia per quanto riguarda il soggetto storico (William Wallace è, come Spartaco e Rodrigo Diaz, un personaggio che ha lottato per la libertà e l’indipendenza del suo popolo) e sia per l’impostazione data alla struggente storia sentimentale dei due protagonisti, abbastanza lacrimosa e di chiaro riferimento ad uno stile tradizionalista del passato.
Bravheheart rappresenta quindi l’epos del duemila; un’ideale continuazione di un genere cinematografico in effetti mai tramontato e da sempre presente, seppur con impostazioni tecniche diverse nel tempo.
Il film, idealmente diviso in due parti (e non in tre, come attestano alcune recensioni), offre una visione iniziale molto soporifera, con in primis l’adolescenza e la prima giovinezza di William Wallace e la descrizione dell’ambiente rurale scozzese del XIII secolo. Una lunga pagina a mo’ di prologo impostata, attraverso un’affascinante fotografia, sul ritratto campestre nord britannico, con approfondita analisi su uso e costumi (‘ius pimae noctis’ compreso) dei popoli di allora. A ciò si aggiunge il periodo della maturazione di William, la tenera storia d’amore con Murron, culminata in un tragico epilogo. La morte di Murror, una visione conturbante ed egoisticamente inattesa dallo spettatore, arriva come un fulmine a cielo sereno.
Da qui in avanti, si passa alla seconda fase, dove il film assume le dimensioni di una macchina da guerra. L’eroe abbandona le sue spoglie di tranquillo e pacifico contadino per assumere gli abiti del condottiero acerrimo e spietato. Le sequenze s’intervallano tra una battaglia e l’altra fino all’arresto e la condanna del protagonista. L’epilogo è ancora più eloquente; prima della parola fine e degli interminabili titoli di coda, si assiste ad un’ulteriore battaglia che non sta significando che sia questa la decisiva, ma solo l’inizio di una lunga ed estenuante guerra contro l’assolutismo. In pratica, una lotta senza quartiere, un disperato e strenuo tentativo per la conquista della libertà e dell’indipendenza.
Il fulcro del lavoro sta proprio nelle scene raffiguranti gli scontri tra i belligeranti. Girati in esterni e, come detto in precedenza, analoghi come metodo di ripresa a Spartacus ed El Cid; ma a differenza di questi più improntati ad una visione drammatica degli accadimenti, sorretti da una truculenza d’immagine molto accentuata e non presente nei due film precedenti. In proposito, Gibson non presenta ricorso alla sovrapposizione digitale dell’immagine per ingigantire il numero dei partecipanti (metodo usato per altri colossi del passato e contemporanei, da Ben-Hur a Il gladiatore). Le oltre tremila comparse (maggior parte delle quali provenienti da un autentico clan scozzese intitolato a Wallace e alla storia dei Pitti, già presente in film come Ivanhoe, Macbeth e in seguito in Il gladiatore) sono tutte impegnate, alternando i loro compiti di volta in volta, secondo le circostanze di ripresa.
L’impostazione scenografica fa riferimento a modelli pittorici ottocenteschi, particolar modo per quanto riguarda le coreografie di massa e le scene di battaglia. In queste ultime ha ruolo importante l’effetto sonoro; il fragore dei combattimenti e il rumore metallico delle armi offrono all’acustica un più che accettabile ascolto. Servirono quasi due mesi di lavoro ai tecnici del suono per ovviare questo fastidioso inconveniente, da sempre e quasi inevitabilmente presente in sequenze del genere.
Non ha eccessiva importanza l’attendibilità storica, ma la maniera con la quale la storia è raccontata. Mel Gibson, attraverso l’ottima sceneggiatura di Randall Wallace, ricava un film al tempo stesso biografico e spettacolare (due anelli di non facile congiunzione), credibile sotto i tutti i punti di vista e a conferma di questo, com’ebbe a dire nel passato il grande John Huston: “Non ho certezza reale se i fatti accaduti sono come li ho raccontati, ma io li ho raccontati come sarebbero dovuti accadere”, ciò testimonia la validità assoluta del film.